LA PEDAGOGIA ARTISTICA DI LIVIO BENETTI di Franco Monteforte |
Un artista trentino in Valtellina Quando nel '37 giunge in Valtellina come professore di disegno alla magistrali di Sondrio, Livio Benetti non è un pittore, ma uno scultore. Pittore lo diventerà di necessità perché in Valtellina una committenza di scultura in quegli anni non esisteva, ma lo diventerà soprattutto perché sente il bisogno di un pubblico. L'arte, infatti, non germoglia nel vuoto e la libertà creativa non ha stimoli senza un rapporto vivo con la società, pensa il giovane artista cattolico trentino, maturato a Firenze tra le lezioni all'Accademia e le appassionate conferenze di Papini e La Pira e fresco allora della lettura di "Art et scolastique" di Jacques Maritain, il filosofo cattolico francese che gli aveva insegnato come l'esigenza estetica della libertà dell'artista non è mai separabile da quella etica della sua responsabilità sociale. E la società valtellinese allora ritratti gli chiedeva, a olio e soprattutto a sanguigna che costavano meno, e qualche paesaggio. E' così, all'inizio degli anni '40, quando con la giovane moglie Pia Torneri si sistema nella casa-studio di Masegra, Benetti accantona momentaneamente la scultura per dedicarsi alla pittura, dove porta di colpo una ventata di aria nuova. Alla Valtellina delle vette e dei ghiacciai, al tremendum dell'ambiente naturale alpino - retaggio romantico che il fascismo aveva ridotto a retorica superomistica - sostituisce il paesaggio naturale di mezza costa e di fondovalle, il silenzio di un bosco, lo scorcio di un torrente, la montagna umanizzata dal lavoro e dalla pietas contadina. Al volto umano toglie l'espressione entusiastica e di trionfale ottimismo del Ventennio, per restituirgli quella pensosa e intimistica, nobilmente atteggiata e interiormente venata di sottile inquietudine dei suoi ritratti e delle sue sanguigne. Al colore ridà il tono vivo, fantasioso e squillante della pittura en plein air. Il suo è un impressionismo spontaneo e senza enfasi, quando l'impressionismo in Europa non era più una novità. Ma nella Valtellina degli anni '40, quell'audacia di non dare contorni alle cose ma di dissolverle nell'atmosfera, quella sensualità viva del colore in alcuni scorci di vita urbana, quelle case contadine cosi sfacciatamente al sole, fanno subito scalpore, appaiono troppo trasgressive. Benetti capisce che non solo l'arte e la pittura in Valtellina sono in quel momento "un deserto", ma che ad esse manca soprattutto un pubblico e che, se vuole fare l'artista, questo pubblico deve crearselo non solo dipingendo, ma scrivendo, stimolando nuove idee, educando, insomma, il gusto artistico collettivo. Nascono da qui, a partire dal 1946, i suoi scritti d'arte, che Franco Benetti ha ora meritoriamente riunito in questo volume e che ci mostrano come la sua riflessione sull'arte, sui suoi sviluppi moderni, sulla sua tradizione e sulla sua storia, in lui da allora non sia venuta mai meno e accompagna anzi come un'ombra, fino agli ultimi anni di vita, tutta la sua produzione artistica contribuendo a metterne in luce il senso e le profonde radici etiche e intellettuali. Possiamo individuare in questi scritti quattro grandi gruppi tematici. Un primo gruppo riguarda l'arte moderna, un secondo gruppo è costituito dagli scritti sulla giovane pittura locale valtellinese, un terzo, fatto soprattutto di interviste, è una riflessione sul proprio lavoro artistico e sul rapporto pubblico-società in generale e in Valtellina in particolare, mentre un ultimo, importante nucleo è costituito dai saggi su alcune grandi personalità della storia dell'arte europea (Michelangelo, Dürer, Rembrandt, Giacometti) e sulle vicende storiche dell'arte in Valtellina con particolare riguardo alla presenza di artisti come il Quaglio e il Ligari. Nel complesso, sembra quasi che in essi prenda forma un intenzionale piano programmatico di educazione artistica del pubblico che diventa via via anche un'implicita autoriflessione sulla propria biografia artistica e che corrisponde fondamentalmente all'idea appresa da Jacques Maritain e dal personalismo cattolico, entro cui filosoficamente si muove Benetti, per la quale il ruolo dell'artista non si esaurisce nel momento dell'intuizione poetica e della rivendicazione della propria libertà creativa, ma si estende anche al miglioramento intellettuale e morale di tutta la società, cioè all'incremento della conoscenza e della libertà di tutti, possibile solo quando tutti riescono a capire e valutare ciò che l'artista fa. L'arte , insomma, non è solo espressione, ma è comunicazione e dell'esperienza artistica fa parte, per Maritain, non solo un momento propriamente estetico, ma anche un momento etico e pedagogico che è, appunto, quello cui Benetti assolve con questi suoi scritti. Picasso e Modigliani, ovvero l'arte moderna spiegata al popolo Egli cerca innanzitutto di chiarire in che consiste l'opera d'arte e qual è il senso dell'arte moderna e delle avanguardie artistiche, premessa indispensabile, a suo avviso, alla comprensione culturale della propria stessa opera e alla crescita di una nuova leva d'artisti in Valtellina. Si spiega in questo modo, ad esempio, l'articolo su Picasso che scrive sul Corriere della Valtellina nell'ottobre del '53, in occasione della mostra milanese sull'artista spagnolo, in cui prende le sue difese contro chi (ed erano tanti) in quel momento irrideva alla sua opera. Per capire Picasso, spiegava Benetti, "è necessario svestirsi di parecchi pregiudizi: quei pregiudizi di natura estetica che, radicati in noi da tutta una tradizione ereditata dall'800, ci impongono di chiedere all'arte quello che l'arte non deve per la sua specifica natura necessariamente dare, in quanto non è all'opera d'arte né essenziale, né utile, ma sovente dannoso". E che cosa è soprattutto dannoso all'opera d'arte? "La riproduzione fotografica, il quadro fedelissimo al vero, il ritratto somigliantissimo", rispondeva Benetti, tutte cose legittime, ma che non hanno nulla a vedere con l'arte, perché "il fatto artistico è diverso e completamente svincolato da questa diligente fedeltà.". L'artista, infatti, non dipinge la realtà, ma dipinge l'immagine che essa ha depositato nel suo animo e che ne stimola tutta l'interiore carica creativa ed emotiva. E' a questa immagine, che per lui diviene l'unica realtà, e alla sua forma che egli affida la "funzione di rappresentare tutto sé stesso con il suo tormento". In Picasso, appunto, "si riassumono tutti i problemi della tormentata evoluzione artistica di tutto il nostro secolo verso una nuova forma espressiva", più aderente a ciò che siamo oggi. Questo è per Benetti il "messaggio spirituale" che ci viene da Picasso. Per questo, conclude, non è delle sue opere che bisogna ridere, ma piuttosto delle "reazioni violente e sincopate negli spettatori meno preparati. Che cosa si aspettavano di vedere visitando Picasso?" L'articolo è tanto più importante in quanto a ridere in quell'occasione di Picasso era stato, fra gli altri, anche il Corriere della sera. Il nostro massimo organo di stampa nazionale stroncava uno dei massimi artisti del '900, che trovava, invece, in quel momento un suo acuto e profondo interprete in un oscuro foglio periferico della montagna lombarda. E se di recente è stato possibile allestire in Valtellina una mostra di Picasso fra l'interesse e il plauso generale, forse una parte non piccola di merito va anche a quel lontano articolo di Benetti del '53. Lo stesso acume critico lo si ritrova, del resto, in un articolo del 1960 dedicato a un altro grande artista moderno, Amedeo Modigliani, morto solo e disperato di tbc a Parigi nel 1920 e a lungo deriso in Italia da critica e pubblico per le sue figure allungate, spesso paragonate ai personaggi dei fumetti del signor Bonaventura. Anche in questo caso, a questo modo di considerare l'arte moderna Benetti replicava che "non nella esatta e leccata riproduzione come di immagini fotografiche sta il fatto artistico. Ma nell'assumere a simbolo di un'idea una forma decisamente delineata e inventata". E mostrava come nelle forme allungate di Modigliani si ritrovassero non solo gli echi della coeva scultura astratta del suo amico Brancusi e quelli della scultura primitiva africana che a Parigi surrealisti cubisti avevano scoperto nel primo Novecento, ma anche, più in là nel tempo, l'influenza della "fiammeggiante stilizzazione" barocca di El Greco combinata con la grazia rinascimentale delle figure di Botticelli. In quelle immagini derise dai suoi contemporanei si condensava, cioè, un complesso gioco di forme entro cui un intero capitolo della tradizione artistica colta europea si saldava alla primitiva arte africana in una originale sintesi di modernissimo e profetico significato. . "Ora - concludeva Benetti - le sue opere sono disputate in tutto il mondo a suon di milioni", ma non dobbiamo dimenticare che morì solo e disperato e che perciò "tutti noi siamo profondamente corresponsabili della tristezza di un uomo" per non averlo a suo tempo compreso. Perché questa incomprensione, perché tanta disattenzione? Perché, aveva chiarito in un articolo del '54 sulla pittura di paesaggio in Italia, la gente pensa che l'arte ci parli innanzitutto delle cose, della realtà, e invece essa ci parla innanzitutto dell'uomo, dell'artista e del suo modo di vedere le cose. "Che cosa c'è di più suggestivo e immediato come emozione, di un bel paesaggio?", si chiedeva in quell'articolo. Ma quell'emozione non deriva da ciò che vi è rappresentato, ma da come è rappresentato. "E' la creazione del pittore-artista quella che ci dona l'emozione di prima mano, il fatto che nei segni, nei colori, nelle forme cercate sulla superficie del quadro, l'artista ha inserito un'anima che parla attraverso le immagini e ci racconta, innanzitutto dell'artista, della sua personalità, della reazione di questa alle emozioni suggerite in lui dalla natura". E' quest'anima dell'artista, per Benetti, l'essenza umana di un quadro, è questa che rende la sua forma non la semplice illustrazione delle cose, ma "una finestra aperta sulla vita". Il critico di se stesso Parla di Picasso, parla di Modigliani, parla degli artisti italiani di paesaggio, ma è di se stesso che in realtà sta parlando Benetti, dei suoi paesaggi, dei suoi ritratti che il pubblico valtellinese degli anni cinquanta non comprende, che giudica poco illustrativi, poco aderenti alla realtà. Tutta la sua attività critica è in quegli anni un modo indiretto di far capire la propria attività artistica. E ciò diventa per lui tanto più necessario, perché in Valtellina una critica vera e propria, in grado di mediare fra artista e pubblico, in grado cioè di formare un pubblico e di dare all'artista la misura della ricezione sociale della sua opera, non esiste. E non esiste, a suo avviso, per un congenito complesso di inferiorità culturale che affligge la Valtellina, in base a cui "si crede poco alla possibilità dell'esistenza in provincia di validi contributi artistici ', si crede poco che in provincia possano nascere e svilupparsi fenomeni artistici importanti e ci si condanna così al provincialismo e alla "supervisione milanese, tipo granducato." Se ne lamenta egli stesso a più riprese in quegli anni e, ancora nel '71, in un colloquio con Giulio Spini, confessa che l'assenza di una vera propria critica d'arte "è la carenza maggiore che si deve rilevare nel nostro ambiente". "Tu sai - dice - quant'è difficile, senza riferimenti, crescere nella cultura[…] hai un'idea di cosa significa progredire da soli nel campo dell'arte […]. Sono portato perciò a farmi l'autocritica permanente." Egli diviene così in quegli anni il miglior critico di se stesso, come mostra, ad esempio, l'analisi del monumento alla Resistenza inaugurato nel '68 in piazza Campello a Sondrio in cui fa notare il richiamo a Brancusi nel monolite su cui si erge il gruppo in bronzo di coronamento, risolto per contrasto in "forme aperte e articolate nell'aria, ricche di dinamismo." Quel gruppo "rappresenta una pattuglia di armati in marcia, affiancati dalla morte". Avanzano con un dinamismo che richiama Boccioni e con un ritmo danzante di linee a elica che ne accresce il pathos drammatico. E' insomma una moderna danza macabra quella che vi ha voluto rappresentare, sul modello, spiega egli stesso, delle "famose danze macabre di derivazione gotica" che si possono vedere sulla facciata medievale dell'ossario di Teglio, o ad Averara in Val Brembana, o a Pinzolo nel Trentino, combinate con le moderne maschere di morte di Egger, di Lienz, di Ensor. E basterebbe questa scultura da sola, senza considerare gli echi della coeva arte italiana ed europea di cui - come ha indicato Luciano Caramel in apertura del catalogo della mostra antologica del 1997 - è sottilmente intrisa tutta la sua opera, a collocare la personalità artistica di Benetti al di fuori di un ambito strettamente locale. Anche quando parla delle proprie opere, ciò che risalta in questi scritti di Benetti è, infatti, non solo l'acume critico dell'analisi, ma anche la vasta coscienza dei problemi connessi all'arte e alla scultura contemporanea di cui offre una magistrale disanima in un articolo sul Bollettino del Rotary club del 1967. Come la pittura, anche la scultura, scrive Benetti, è materia cui l'artista dà una "forma" nella quale noi riconosciamo ciò che abbiamo già dentro. E questo riconoscimento sarà tanto più potente quanto la forma sarà un po' informe, vale a dire più suggerita che rappresentata, in modo da racchiudere in sé un "latente suggerimento di mistero". Insomma, "l'opera d'arte autentica dovrebbe avere come un qualche cosa di incompiuto, offrendo la possibilità di integrarsi compiutamente nella coscienza del fruitore che vi si riconosce." Rientra in questo più generale carattere di incompiutezza, come elemento costitutivo dell'opera d'arte, non solo l'informe, ma anche il deforme cui l'artista ricorre per incrementare l'espressività delle immagini, cioè la loro vita. "Perché l'oggetto d'arte vibri ed evochi quella natura che si vuole richiamare, - dirà Benetti in una conferenza al Rotary del 1963 - deve essere opportunamente diverso dalla natura, ripensato, più o meno 'deformato'. […] E' un po' come in un particolare tiro a segno, per colpire il centro (forma diversa), deve essere tanto più divergente, quanto più intenso e vibrante è l'effetto che si vuole raggiungere." Anche in questo caso, come si vede, lo scopo dell'artista non è uno sviamento, ma un incremento della comunicazione. L'opera d'arte, infatti, è in ultima analisi, un fatto comunicativo, un "campo magnetico" attivato dall'artista cui gli spettatori, scrive Benetti, "attingono valori, senza praticamente consumare mai quella carica di energia radiante." La giovane pittura valtellinese Proprio perché sente su di sé il peso dell' assenza di una critica competente che funga da bussola per l'artista, egli si fa talora critico attento, sincero e talvolta severo della pittura locale. L'arte in Valtellina, nota nel '59, in occasione della seconda mostra sindacale d'arte, "o si regge sulle proprie forze e si erge sostenuta da personalità originali che siano per energia propria autosufficienti e fortemente caratterizzate o vive asfittica per mancanza dell'ossigeno quotidiano di produttivi contatti con lo spirito stesso dei grandi movimenti artistici." Ed è questa sorta di asfissia che avverte, soprattutto, nella pittura locale. Salva la pittura "seria e onesta" di Francesco Carini, segnala la naturale tendenza all'astrattismo di Geremia Fumagalli, rispetta il tono volutamente dimesso, ma "pieno di sentimento" dei quadri di Bianca che "quasi svaniscono nella delicatezza", in singolare contrasto con la personalità "istintiva, impulsiva, a volte incontrollata" di Vaninetti, ma, per il resto, solo "sconcerto, fatica, disorientamento si notano nelle opere esposte a questa seconda sindacale valtellinese." Di cosa soffre l'arte valtellinese, per Benetti? Soffre di provincialismo, di scarsa apertura internazionale, dell'incapacità di trovare una forma adeguata d esprimere il proprio mondo, la propria condizione alpina, la propria appartenenza "ad un mondo centro-europeo". Soffre, in altri termini, dell'eccessiva dipendenza da Milano, della "supervisione milanese, tipo granducato", di quel congenito bovarismo culturale di cui soffre spesso la provincia, che porta a credere che tutto ciò che c'è di importante avviene solo nella capitale. Eppure in passato, e ancora nell'Ottocento e nel Novecento, il mondo alpino ha dimostrato una grande vitalità artistica. Basti pensare, scrive Benetti, ad artisti come Segantini, Hodler, Kokoschka, Pacher, o Mario Negri, per restare alla Valtellina, per non parlare di Alberto Giacometti. La tradizione artistica in Valtellina La scomparsa di Giacometti nel 1966, segna per Benetti l'avvio di una profonda riflessione sul passato artistico della Valtellina. In poche pagine Benetti riesce a sintetizzare magistralmente i caratteri essenziali dell'opera di Giacometti e il suo esempio mostra, per lui, come un artista nato e cresciuto nell'ambiente alpino possa trovare una forma artistica in grado di esprimere l'essenza umana del proprio tempo. Giacometti, scrive, "era un artista di questa nostra terra di montagna, di queste nostre valli", ma pure è riuscito a diventare "una delle voci più alte e chiare dell'arte dei giorni nostri". C'è, dunque, un modo provincialistico deteriore di guardare ai movimenti artistici internazionali ed è quello di scimmiottarli acriticamente, scadendo in una "uniformità monotona, insapore e apolide". Ma c'è un modo invece di assimilarli e di servirsene per "essere interpreti propri di un mondo particolare e risalire attraverso questa autenticità ad una universalità significante". Ed è questo il caso, per restare alla Valtellina e ai suoi dintorni, di Mario Negri o di Alberto Giacometti, ma anche di artisti del passato come Giulio Quaglio, ad esempio - l'artista della Val d'Intelvi che dopo aver affrescato la chiesa della Trinità a Novate Mezzola, realizza nella cattedrale di Lubiana, in Slovenia, il grande ciclo di affreschi con le storie di san Nicola - o di Pietro Ligari, il maggior artista del Settecento valtellinese che, dopo essersi formato a Roma e aver soggiornato a Venezia assimilando le correnti artistiche più vitali del proprio tempo, lavora per diversi anni a Milano tornando infine nel 1727, a 41 anni, in Valtellina dove realizza i suoi maggiori capolavori e avvia alla carriera artistica i figli Cesare e Vittoria. Sia il Quaglio che il Ligari, sono per Benetti il prototipo di ciò che è stata in passato l'arte in Valtellina. E se nel caso Quaglio l'interesse di Benetti era stimolato non solo dagli affreschi nella chiesa di Novate, ma dalla sua amicizia col grande architetto di Trento Andrea Pozzo, che lo chiamerà a Lubiana, e, dunque, dal legame tra Valtellina e Trentino che Benetti incessantemente ricerca e sottolinea tutte le volte che può, nel caso di Ligari c'è, invece, in Benetti un'ammirazione che sconfina, a mio avviso, quasi nell'identificazione. L'alter ego valtellinese: Pietro Ligari Al Ligari Benetti dedica uno dei suoi primi saggi nel '52, in occasione del secondo centenario della morte, e al Ligari dedicherà uno degli ultimi articoli nel 1986. Sotto il segno del Ligari, insomma, si aprono e si chiudono questi suoi scritti d'arte. Particolarmente importante è l'articolo del '52 perché in quel momento l'artista è in Valtellina quasi dimenticato. L'unico studio di rilievo, infatti, era allora quello di Camillo Bassi che risaliva però al 1931, mentre l'articolo di Rossana Bossaglia, "I Ligari nei rapporti coi pittori del proprio tempo", che segnerà la ripresa degli studi critici sull'artista, apparirà sulla rivista "Commentari" solo nel '59. Benetti segnala nell'articolo le molteplici influenze della coeva pittura europea nell'opera del Ligari, sottolinea l'importanza degli affreschi ligariani nel palazzo Salis di Coira e, più in generale, del legame del Ligari con la famiglia Salis, ma segnala soprattutto l'importanza dei suoi monocromi ad olio che solo più tardi verranno adeguatamente valorizzati, e auspica una ripresa degli studi attorno all'opera dei Ligari, che culmineranno nel '74 nella monografia su "I Ligari", realizzata dalla figlia di Camillo Bassi, Laura Meli Bassi, per la Banca Piccolo Credito Valtellinese. Ma nel suo articolo del '52, Benetti, oltre a delineare l'itinerario artistico del pittore, tratteggia la figura umana del Ligari e cerca di penetrarne l'anima descrivendone la casa. "Sono stato a far visita - scrive - allo studio nella vecchia casa, ora adibita ad abitazione. Nobile nella sua ampiezza con la vasta finestra luminosa a vetri piombati aperta verso sera. Il soffitto a travi scoperte in cimolo documenta il buon gusto del padrone di casa. Un'ampia stufa di tipo svizzero-tirolese occupa il caminetto . Un piccolo orto concluso tra le alte mura dice tutto il raccoglimento al quale aspirava GianPietro. Forse un po' borghese, l'ideale pur modesto di serena vita famigliare, ma bisogna pur ammettere che troppo si è insistito in questi ultimi tempi sul tipo di artista eccentrico e originale a qualsiasi costo, sull'esotismo come ideale e premessa, fin sul patologico, come condizione per la dovuta attenzione alla personalità dell'artista." Non c'è in questa descrizione della casa del Ligari, quasi in controluce la descrizione che della propria casa-studio di Masegra fa nel '73 ("una casa romantica un po' in campagna, nei pressi del Castello Masegra; in mezzo al verde e alle montagne")? Non cercava in questa casa la stessa concentrazione che Ligari cercava nella sua ("…mi raccolsi con la famiglia, arroccato e un po' isolato, in laboriosa meditazione. Mi sembrò allora che la poesia del silenzio e il raccoglimento al contatto con la gente semplice , la famiglia, la natura, avrebbero creato le condizioni ideali per una buona stagionatura")? E nella descrizione del Ligari come antitesi dell'artista tutto genio e sregolatezza, nel suo "modesto"ideale borghese di vita familiare, non intravediamo forse la controfigura di Benetti stesso quando nel '71 confessa "Io credo in poche cose essenziali ma in quelle credo veramente.[…] la famiglia, la moglie, i figli, un'isola sicura e fedele di conforto permanente"? Non è, infine, Pietro Ligari la smentita più clamorosa di quel complesso di inferiorità culturale che affligge la Valtellina moderna e il cui peso egli avverte sulla propria opera? Fin dal suo arrivo in Valtellina, in verità, Benetti si rese conto dell'importanza nella sua storia artistica di Pietro Ligari e con Ligari cercò sempre di identificarsi. Egli volle fare in Valtellina nel '900 quel che il Ligari aveva fatto nel Settecento. Volle essere il Ligari della Valtellina moderna. E come Ligari si tenne sempre lontano da quelle che considerava le stravaganze del barocco e del nascente rococò, così Benetti si tenne sempre lontano dagli eccessi dell'arte del '900, come del resto i suoi lontani, ma sempre presenti, modelli trentini Garbari e Pancheri. "Capisco - scrive nell'81 - la sofferenza della ricerca nel campo astratto, nel mondo sognante surrealista ma spesso certe manifestazioni esplosive , certe trovate intelligenti sono al limite e al di là dell'arte, quando non sono altro che mistificazioni". Ed è appunto il rischio della mistificazione ciò che gli impedirà sempre di cedere alle tentazioni avanguardistiche dell'astrattismo e dell'arte surreale, entro cui temeva di perdere se stesso e il contatto con la propria comunità. "Buttarsi o non buttarsi? - si chiede ancora nell'81 - E' evidente che l'arte si nutre di queste esperienze avanguardiste e la libertà espressiva è una conquista da perseguire, ma bisogna anche conservare una coerenza interiore.[…]. Penso poi che l'artista deve inserirsi nell'ambiente umano nel quale vive, deve sì scoprire, illuminare cose nuove, per renderle evidenti a chi non le sa vedere, ma deve anche trascinarsi al seguito un pubblico, che se è vero che spesso è rarefatto, è pur sempre una comunità che risponde, una platea che dialoga, partecipe col palcoscenico. […] Succede poi che questo pubblico sgomento e incredulo di fronte a certe nuove esperienze , maturi più in fretta dell'artista stesso e trovi dopo pochi anni superato quello che ieri l'aveva sbalordito." Era il suo caso. L'artista che più di tutti aveva contribuito a far comprendere in Valtellina il linguaggio dell'arte moderna e delle sue avanguardie, ma che per non perdere il contatto con la società non si era mai spinto oltre un audace impressionismo, si trovava di colpo superato dal gusto artistico che aveva diffuso e dai giovani pittori cui aveva dissodato il terreno. "C'è tutto un risveglio che conforta - osserva nell'81 nel saggio autobiografico che premette al proprio volume monografico - Rinasce e dilaga dappertutto la passione per la pittura. Ritorna una tradizione , per poco spenta, che aveva arricchito la valle in passato di splendide opere d'arte…". C'è orgoglio in queste sue parole, ma c'è anche una punta di amarezza per il mancato riconoscimento del suo fondamentale contributo a questa rinascita negli anni più bui dell'arte valtellinese del dopoguerra. Un po' come Ligari, che la Valle aveva presto dimenticato. Michelangelo e Dürer Ma se Ligari rappresentò l'artista valtellinese con cui più di ogni altri Benetti si identificò, ci sono in questi scritti due grandissimi artisti verso cui continuamente trapela la sua incondizionata ammirazione, Michelangelo e Dürer. Si tratta di due artisti molto diversi, che incarnano le due anime del Rinascimento, quella nordica, più assillata dal tormento di un'inquieta interiorità, e quella mediterranea, più attenta ai valori universali della classicità. Sono le due anime che Livio Benetti, trentino di nascita, e perciò naturalmente orientato verso il centro e il nord Europa, ma fiorentino di formazione, avvertì profondamente in sé e di cui egli cercherà sempre nella propria opera una sintesi. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che il suo primo maestro di scultura alle Scuole Industriali di Trento, che ne segnerà profondamente lo stile, fu Stefano Zuech, un artista formatosi all'Accademia di Belle Arti di Vienna, ma che la sua prima opera fu nel '31 un gesso "michelangiolesco" e che considererà sempre la Pietà Rondanini, con il suo carattere non-finito, come l'essenza stessa dell'opera d'arte e tutta l'opera di Michelangelo come una sintesi perfetta di estetica ed etica. "La bellezza per Michelangelo - scrive Benetti - si identifica con il corpo umano[…] l'unica forma nobile attraverso la quale si può parlare di Dio e vedere di riflesso la faccia di Dio". Dürer, d'altra parte, non è solo l'artista principe del Rinascimento nordico, ma è anche colui che cerca di introdurvi i valori del Rinascimento italiano soggiornando due volte in Italia dove arriva dal Trentino, di cui ci ha lasciato alcuni straordinari paesaggi ad acquerello. Benetti sente in Dürer questa tensione fra espressività nordica e classicità latina, che avverte anche in se stesso e ne studia con attenzione l'opera, al punto da avanzare nel 1964, in occasione del quarto centenario della nascita di Michelangelo, una nuova interpretazione di una delle sue incisioni più enigmatiche, quella in cui sono rappresentate cinque figure, quattro nude e una vestita, nota con il titolo "Il disperato". Egli ritiene che la figura vestita di profilo sia in realtà il ritratto di Michelangelo e che l'opera nel complesso costituisca un omaggio dell'artista tedesco al grande artista italiano. Ed in effetti la barba, i capelli un po' arruffati e il profilo col naso sfigurato dal famoso pugno Pietro Torregiani, di cui narra il Vasari, rendono questa figura molto somigliante al volto di Michelangelo come ci è stato tramandato dal busto di Daniele da Volterra e dai ritratti di Jacopino del Conte o dello stesso Vasari negli affreschi di Palazzo della Cancelleria a Roma. Benetti avanza come nuova e inedita "questa piccola scoperta" che definisce "un nostro modesto fiore delle Alpi". L'ipotesi, in realtà, avanzata da tempo dalla critica dureriana, era già stata scartata fin dal 1955 da Erwin Panofsky che aveva dimostrato come quella figura vestita altro non fosse che il ritratto del fratello di Dürer, Endres, all'età 30 anni e che i quattro nudi erano la rappresentazione dei quattro tipi di melanconia, cioè di malattia, contrapposte alla raffigurazione dell'individuo sano. Ma il libro di Panofsky "The life and art of Albrecht Dürer", nel '64 non era ancora noto in Italia (Feltrinelli lo avrebbe tradotto solo nel 1967) e l'interpretazione di Benetti resta, perciò, un documento della sua minuziosa e puntigliosa attenzione all'opera del grande artista tedesco. Vent'anni dopo, nel 1982, Benetti tornerà ancora sull'opera di Dürer in un articolo, "Albrecht Dürer in Valtellina?", in cui avanza l'ipotesi, anche questa alquanto ardita, che il polittico in legno intagliato e dorato della chiesa di Cepina, un flügelaltar, un altare mobile a sportelli, proveniente dalla Germania e risalente al 1520 -1525 circa, possa essere uscito dalla bottega di Dürer. L'ipotesi non era senza fondamento. "L'adorazione dei Magi", dipinta sulla facciata esterna dei due sportelli del trittico, riprende, infatti, liberamente, ma con impressionante corrispondenza di particolari, un'analoga incisione di Dürer pubblicata nel 1511 nel suo volume di incisioni dedicato alla vita di Maria Vergine, il "Marienleben". Ed in effetti, se si prescinde dalla figura di S. Giuseppe, spostata al centro dell'anta, "l'impostazione della scenografia - scrive Benetti - è uguale nei minuti particolari, salvo qualche variante imposta dalla diversa riquadratura della tavolozza". Oggi l'intaglio scultoreo dell'altare è stato di recente ricondotto da Raffaele Casciaro al cosiddetto "Maestro di Octobeuren", dal nome dell'abbazia vicino Memmingen in cui si conservano due opere analoghe, ma, per quanto ci risulta, Benetti è rimasto finora l'unico ad aver messo in rilievo questa ripresa così fedele di un'incisione di Dürer nella decorazione a tempera degli sportelli esterni dell'altare di Cepina. Il rilievo è tanto più importante in quanto si tratta della più clamorosa testimonianza di un'eco dell'opera dureriana in Valtellina che, inspiegabilmente, è rimasto finora del tutto ignorato dalla critica storica, al punto che nel catalogo della recente mostra sondriese "Legni sacri e preziosi in Valtellina tra Gotico e Rinascimento" (Silvana editoriale, 2005), la scheda critica relativa al flügelaltar di Cepina non fa alcun riferimento, neppure in bibliografia, a questo importante articolo di Benetti che ora, grazie a questo volume di scritti, si spera possa rientrare a pieno titolo nell'attenzione degli studiosi di arte valtellinese. Il Fogolino a Palazzo Besta? Proprio questo articolo, d'altronde, esemplifica bene il costante punto di vista con cui Benetti ha studiato l'arte in Valtellina, cercando di rintracciarne e metterne in rilievo tutti i legami con l'arte nordica e dell'arco alpino, trentina in particolare. Egli avverte, insomma, nell'arte valtellinese del passato, accanto alle forti influenze lombarde, ticinesi e venete, "un'apertura verso nord" - come dice nel già citato colloquio con Spini del 1971 - una sensibilità "appartenente ad un mondo centro-europeo", che l'ha resa nel corso dei secoli sempre aperta "ad una vocazione internazionale" e che, a suo avviso, gli artisti della Valtellina contemporanea avrebbero dovuto recuperare. E' questo particolare punto di vista che gli permette, ad esempio, di avanzare nell'84, in un importante excursus sulla storia dell'arte valtellinese pubblicato su "Valtellina nostalgia delle origini", l'ipotesi che gli affreschi e le decorazioni a grottesche nel cortile e in alcune sale di palazzo Besta a Teglio possano essere opera di Marcello Fogolino e di suo fratello Matteo, due artisti molto eclettici e aperti alle novità figurative, attivi nella prima metà del '500 a Vicenza, Pordenone e Venezia, che dopo il 1527 ritroviamo alla corte del principe-vescovo di Trento, Bernardo Clesio, accanto a Dosso Dossi e al Romanino nella decorazione del castello del Buonconsiglio - dove Marcello firma alcuni suoi capolavori come gli affreschi nella Sala terrena del torrione e quindi a quella del suo successore, Cristoforo Madruzzo, di cui divengono i più apprezzati pittori. E', appunto, a Marcello Fogolino - di cui Matteo sarà sempre solo un aiuto - e alla sua ramificata ed efficientissima bottega che si devono le decorazioni di molti palazzi e castelli trentini come quello di Cles in val di Non o quello di Stenico "con uno stile d'una analogia sorprendente con gli affreschi di Teglio", scrive Benetti, quello stile cioè di affresco a monocromo bianco su fondo di azzurrite che Marcello aveva sperimentato fin dal 1531 sulla facciata di casa Cazuffi in piazza Duomo a Trento e che è lo stesso delle storie dell'Eneide nel cortile di palazzo Besta, dove peraltro anche il fregio marcapiano a grottesche su fondo giallo-oro riporta al Fogolino. Anche se, come ritengo, gli affreschi non sono forse del Fogolino, ma più probabilmente della sua bottega, è in ogni caso un'ipotesi molto suggestiva e stilisticamente ben fondata quella di Benetti. E tuttavia, anche in questo caso, essa non è stata mai presa in tutti questi anni nella dovuta considerazione dagli storici dell'arte valtellinese del '500, malgrado il Mulazzani nella monografia su Palazzo Besta edita dalla Banca Piccolo Credito Valtellinese nel 1983, avesse già ricondotto gli sconosciuti autori degli affreschi del cortile del palazzo all'ambito manieristico di Giulio Romano e del Pordenone e, per il fregio, a quello del Romanino, che sono appunto gli ambiti di cultura artistica dei Fogolino. Senza contare che, al di là di questi rilievi strettamente stilistici, Benetti aveva anche segnalato altri importanti indizi storico-documentari, come una lettera del 1533 del principe-vescovo Bernardo Clesio, "dove si parla di una 'impresa molto onorevole' 'fuori Trento' promessa esplicitamente al nostro Marcello e della quale non si è trovata per ora traccia di identificazione" o come la presenza a Teglio, alla corte dei Besta, di Ortensio Lando, il colto ed estroso umanista milanese protetto, come il Fogolino, dal cardinale Cristoforo Madruzzo di cui era stato anche l'allievo. L'arte valtellinese: un patrimonio da valorizzare C'è un ultimo aspetto che gli scritti riuniti in questo volume mettono in rilievo e cioè che lo studio e l'indagine storica sull'arte valtellinese non furono mai disgiunti in Benetti da una costante attenzione al recupero, alla tutela e alla valorizzazione delle testimonianze artistiche del territorio anche sul piano della promozione turistica del territorio, in stretto legame con l'economia della Valle. Lo afferma esplicitamente, a più riprese, egli stesso, ma lo dimostra, soprattutto, la sua attività di presidente dell'Ente provinciale del turismo. Ricordo di essere rimasto stupito quando nel 1982 mi chiamò per affidarmi l'incarico di una breve guida turistica sul territorio di Sondrio. Non riuscivo a spiegarmi perché per una guida turistica si rivolgesse a un giovane siciliano che di turismo allora non ne sapeva nulla, interessato com'era solo alla storia e alla cultura valtellinese. Lo capii solo quando mi chiese di valorizzare appunto soprattutto gli aspetti storico-artistici e culturali del territorio. Ne nacque un volumetto, "Itinerari sull'Adda da Chiuro a Castione", uscito in quell'anno con la sua prefazione. Collaborammo in seguito entrambi al volume "Valtellina nostalgia delle origini", ma da quella lontana guidina turistica dell'82 era intanto nato il mio interesse per l'età Liberty in Valtellina, era nata la mia monografia su Sondrio, era nata un'altra mia guida della città e nascerà, infine, la "Storia della civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna", diretta insieme a Simonetta Coppa fra il 1990 e il 2000 e il cui merito, nelle sue più remote radici, risale un po' anche a quel lontano incarico affidatomi nel 1982 da Livio Benetti. |
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