Dalle valli dell'Adige a quelle dell'Adda.
di Livio Benetti
Trento, ottobre 1973
Quando si vuole riconsiderare l'itinerario di una vita succede di ripensare a come si è venuta formando la personalità e come è nata e fruttificata la propria produzione artistica in lunghi anni di lavoro.
Non c'è dubbio che le influenze dell'ambiente nel quale si vive, i rapporti, le conoscenze artistiche, giocano un ruolo importante nel plasmare quei caratteri che pur innati in parte, vengono a delineare la fisionomia di un artista che poco o tanto emerge dalla corrente della cultura contemporanea, nella scia di una tradizione che scorre colla vita che lo circonda, forgiandone la personalità.
La mia vocazione è nata nell'ambiente della famiglia; mio padre, artista e artigiano illustre nel campo dello sbalzo e cesello del rame e dei metalli, viveva per la sua arte e sapeva appassionare alle espressioni artistiche perché erano per lui una ragione di vita.
L'atmosfera che si respirava a Trento negli anni trenta era ricca di spunti e di motivi vari e spesso contrastanti. La provincia ha una sua vivacità di suggerimenti e una ricchezza di contenuti che fanno trasparire con evidenza il sapore delle generazioni e rivelano le note caratteristiche della sua storia.
Gli artisti maturi, a quell'epoca, avevano avuto una formazione che di massima discendeva dalla scuola viennese; il mio maestro lo scultore Stefano Zuech infondeva nella sua produzione un contenuto e controllato classicismo che spesso si improntava, attraverso una vasta gamma di accenti a una rigida stilizzazione ma aveva anche un animo entusiasta, una preparazione tecnica straordinaria, inquadrata in una notevole ricchezza d'interessi culturali.
L'arte locale di gusto trentino e tirolese era caratterizzata da una certa impronta paesana e contadina che rappresentava una aspirazione largamente diffusa; il culto della tradizione e di un certo colore locale di sapore autonomo e d'identità alpina era nell'aria.
Del resto, dalla Svizzera con Hodler, all'Alto Adige con Egger Lienz e alla Baviera con Franz Marc, fino al nostro Segantini, la ricerca di una valorizzazione romantica dell'ambiente e della storia locale, nello spirito dell'unità del popolo della montagna, era un po' il tema obbligato.
D'altra parte artisti trentini come Bonazza, Dario Wolf, Camillo Bemardi, Carlo Bernardi, Benvenuto Disertori, Luigi Ratini, Giorgio Wenter Marini, risentivano ancora le ultime influenze di un certo divisionismo filtrato dall'arte floreale e di certe stilizzazioni che discendevano in linea diretta dall'arte di Klimt.
Un'aria nuova veniva poi dal mezzogiorno, attraverso i contatti con le nuove correnti francesi e italiane: Umberto Moggioli, con i chiaristi veneti, Carlo Rasmo, Oddone Tomasi, ma anche Tullio Garbari con un sottilissimo primivitismo poetico e Fortunato Depero con il suo travolgente neo-futurismo.
Presentato da Garbari si faceva strada con la sua originale impronta lirica un Gino Pancheri e un "Rousseau trentino" come Terlizzi. C'erano allora vivaci polemiche sui dipinti del nuovo Palazzo della Posta a Trento, per l'appunto di Pancheri e Bonazza.
L'interesse per le arti era vivo e a diverse successive mostre collettive alle quali feci le mie prime timide apparizioni, fecero seguito appassionate discussioni e animosi schieramenti.
In quel mondo, pieno di potenziali sviluppi, si venivano ad affacciare alla ribalta nuovi nomi come Guido Polo, Remo Wolf, Eraldo Fozzer, Bruno Colorio; era la nuova generazione, che avrebbe continuato le esperienze e le affermazioni di una così ricca tradizione.
La documentazione migliore della maggior parte di questa schiera di artisti è stata raccolta e coscienziosamente puntualizzata nella splendida "Collana degli Artisti Trentini" che Riccardo Maroni ha curato con amore per dare al Trentino e all' Italia un'importante testimonianza del fervore di cultura delle terre recentemente redente.
Con questo viatico di precedenti nel 1933 me ne partii per Firenze a completare, per alcuni anni, i miei studi artistici e ad incontrare, dopo il prezioso tirocinio trentino, un mondo diverso ma altrettanto interessante e vivo.
In Toscana, a contatto con il Rinascimento, con il mondo etrusco e la scultura pisana feci un salutare bagno nella cultura italiana che se mi rimise in tono con l'arte del passato provocò non pochi scompensi nelle mie giovanili esperienze.
C'era anche laggiù il contrasto in atto tra l'ordine e l'avventura e mentre leggevo con passione "Art et Scolastique" di Maritain, mandavo anche a memoria la poesia di Apollinaire "La Jolie Rousse" che era come un programma su questo tema scottante.
Tra la pittura di Carena e la scultura di Andreotti, s' insinuava lentamente il dubbio posto dalle mostre di Martini e Viani, la pittura di Conti, quella di Soffici e di Severini.
Allora però mi interessava soprattutto la scultura; ho passato giornate intere a studiare la scultura etrusca al Museo Archeologico, Andrea Pisano, Donatello e il Ghiberti delle porte del Battistero.
Mi trascinava la scoperta della forma nello spazio, il suo diluirsi nella luce, il suo dissolversi deformandosi per rendere la vita, il "non finito" di Michelangelo e il disegno di figura, quell'improntare decisamente l'essenziale per marcarne con dei neri carboncini le ombre sicure a renderne evidente la plasticità.
In quegli anni feci anche le prime esperienze di pittura, l'acquerello con Crepet e la tempera con Spinelli. Una pittura a tempera insegnata incominciando dalla mestica dei colori, fino alle prime prove d'affresco con Chini.
Andavamo in giro per la campagna toscana tra gli olivi e i cipressi a ritrarre "en plein air" motivi vari con rapidi schizzi colorati; sono queste uscite che mi hanno fatto amare per sempre quel paesaggio così sereno e intenso.
Fu però solo a Venezia nel '35 che incominciai a lavorare più da vicino al colore. Non poteva essere diverso; la scuola veneziana è scuola e scoperta del colore. Ma anche la scultura a Venezia è diversa, più pittorica, meno legata al rigore classico, più libera e luminosa nell'atmosfera lagunare.
Nell'autunno del 1937 feci la mia prima apparizione in Valtellina. Era un fulgido autunno colorato e la valle mi apparve in tutta la sua ricchezza di tinte e di toni anche se quel ritornante risuonare di campane a ruota, per me desueto, metteva in corpo una certa vena di melanconia.
Pochi mesi e poi una lunga parentesi militare durata praticamente fino al '43, con poche interruzioni, molte ansie, vicende lieti e tristi.
La Valtellina dove pensavo di fermarmi poco, mi ospita tuttora. Ricordo da bambino un "Gioco dell'oca" che invece raffigurava il giro d'Italia; a Sondrio si pagava la penale di tre soste, Io ci sono da quarant'anni.
Certo le montagne sono un comune denominatore e sui monti della valle ho ritrovato lo stesso sapore acre di resine, gli stessi rododendri dei miei monti, la buona pasta della gente semplice, tante ragioni per amarla.
Un ambiente artistico locale non esisteva, era come il deserto; ricordo che De Gasperi mi scherzava definendomi il più grande artista della Valtellina. Per forza, non c'era nessun altro! Solo un paio di volte l'anno saliva da Bergamo Paolo Punzo che imperversava sul mercato con la sua pittura di montagna. Mi consolavo conversando d'arte con il caro G. Battista Gianoli nella sua casa di Poggi o nella Biblioteca di Sondrio
Non parliamo poi di scultura, che, costosa com'è, per la sua realizzazione, vorrebbe committenti assicurati. Non rimaneva che dipingere e disegnare. Quanti ritratti e ritrattini di bambini feci in quegli anni, a sanguigna, a carboncino e poi acquerelli. Attraverso l'acquerello e il guazzo, pian piano, tutta una riscoperta del colore dal vero, una magnifica avventura. Era come una riesplorazione della natura. Una campionatura dei colori, delle campiture, direttamente dall'originale. I cieli che non sono quasi mai azzurri, gli alberi e i prati che non sono quasi mai verdi, gli accordi di toni nella macchia, così deliziosi.
Poi, lo studio degli Impressionisti nei pochi originali, a Venezia, a Milano, sui libri e di tutta l'esperienza della pittura francese del post-impressionismo. Così incontrai anche la pittura ad olio e fermando in tante piccole impressioni il mondo che mi circondava da vicino venivo a mettere in luce suggestive bellezze del paesaggio, a volte alpino ma spesso di mezza montagna o di fondovalle. La valle e lo scorrere delle acque, i campi di segale, gli alberi, le case, i paesi; cose semplici, motivi dal vero, che riecheggiavano sì altre esperienze ma che erano allora anche una sorprendente scoperta di un paesaggio valtellinese sconosciuto.
Superai così anni duri e di volta in volta, quando mi si presentava l'occasione ritornavo alla scultura con uno spirito nuovo e con problemi nuovi. La forma non più astratta nella sua purezza classica ma inserita nell'aria, nel colore. Non è una tesi facile e i problemi rimangono ancora dibattuti ed ardui.
Rivedere Medardo Rosso, capire Manzù e trovare clienti per realizzare i bronzi e le opere. Sempre lo stesso dilemma: abbandonare il vero per l'avventura o perseguire una visione legata alla realtà, vicina alla sensibilità della percezione. Trovare una sintesi nella macchia di colore, scoprire l'essenziale della forma.
Milano, vicina con le mostre ardite di Picasso e le Biennali veneziane, con l'evidenza di tutte le esperienze sfrenate di libertà più assoluta ormai vicine all'anarchia, ispiravano divagazioni. Buttarsi o non buttarsi?
E evidente che l'arte si nutre di queste esperienze avanguardiste e la libertà espressiva è una conquista da perseguire ma bisogna anche conservare una coerenza interiore. L'esperienza montanara mi ha insegnato a non mollare un appiglio fino al momento di averne assicurato un altro.
Capisco la sofferenza della ricerca anche nel campo astratto, nel mondo sognante surrealista ma spesso certe manifestazioni esplosive, certe trovate intelligenti sono al limite e aldilà dell'arte, quando non sono altro che mistificazioni. E' vero che tutta l'arte è un po' una mistificazione, per dirla con Platone ma c'è buona fede e mala fede e il mondo oggi gioca un po' troppo sulla mercificazione, sull'inganno, sulla truffa e nel campo della speculazione, sulla firma. Penso poi che l'artista deve inserirsi nell'ambiente umano nel quale vive, deve sì scoprire, illuminare cose nuove, per renderle evidenti a chi non le sa vedere ma deve anche trascinarsi al seguito un pubblico, che se è vero che spesso è rarefatto, è pur sempre una comunità che risponde, una platea che dialoga, partecipe col palcoscenico.
E questo discorso con la gente che spesso giustifica l'artista. Succede poi che questo pubblico, sgomento e incredulo di fronte a certe nuove esperienze, maturi più in fretta dell'artista stesso e trovi dopo pochi anni superato quello che ieri l'aveva sbalordito ma l'artista è anche un uomo e deve essere sincero con sé stesso e onesto con gli altri.
Così la mia arte è un continuo andare e venire, uno studio continuo, un ricominciare sempre daccapo e così sembra non si arrivi mai.
Ho conosciuto in seguito il pittore Bracchi, onesto e valido pittore valtellinese che operava a Milano e lo scultore Mario Negri di Tirano, notevole esempio di coerenza nelle sue forme astratte, organizzate da una lucida sensibilità. Ogni conoscenza è uno stimolo, una nuova amicizia e un conforto.
Poi anche in Valtellina si ebbe una fioritura di artisti. Rinasce e dilaga dappertutto la passione per la pittura. Ritorna una tradizione, per poco spenta, che aveva arricchito la valle in passato di splendide opere d'arte, come gli affreschi delle nostre chiese, ricche testimonianze di personalità anche eminenti.
Amici e colleghi lavorano sodo, in valle, in una rinnovata fiducia nella propria terra, nelle possibilità e nell'avvenire di questa gente di montagna che nella propria severità nasconde una sensibilità acuta e aperta anche per l'arte.
Vaninetti, Personeni, Bianca, Pelizzatti, solo per fare alcuni nomi, sono presenti attivi e collaborano a creare quell'atmosfera di maturazione e di progresso nelle arti. Non solo in pittura, ma anche nella litografia, nell'acquaforte, nella grafica, c'è tutto un risveglio che conforta.
Io peraltro sono sempre alle prese con i miei problemi, contento solo quando posso lavorare, magari qualche volta insoddisfatto ma impegnato sempre a realizzare quel sogno che coltivo dalla giovinezza.
Talvolta rimango commosso e incoraggiato quando gente modesta mi viene a trovare nello studio e si appassiona alle mie cose, capisce e sa apprezzare quella poesia che vi è racchiusa. Si sente che partecipa al fatto che non si tratta di una merce qualunque ma qualcosa che pur per poco che lo spirito l'abbia illuminata, costituisce il distillato di una vita vissuta per l'arte.
Non cerco il grande successo. La scuola degli impressionasti francesi e le loro vicende mi hanno insegnato che il riconoscimento quando c'è e quando è meritato, è tardivo. Vorrei solo mi si riconoscesse, pur sapendo che le buone intenzioni non fanno un artista, la serietà dell'impegno, l'espressione di quella briciola di poesia che un sentimento profondo ha coltivato in questo mio vagare inquieto tra le montagne, come un esule, di qua e di là dal Tonale, dalle valli dell'Adige a quelle dell'Adda in tanti anni di fervido lavoro.



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