Interpretazione di un artista di Giulio Spini |
Se questa fosse considerata, per la produzione
artistica di Livio Benetti, l'ora del conti, non saprei da dove
cominciare. Non riesco neppure ad immaginare una ragioneria estetica,
in cerca a ritroso nel tempo, di reperti per un bilancio interlocutorio
della sua vicenda di pittore e di scultore. Può valere per ogni artista ma per lui non conosco altro criterio di contabilità di quello insegnatomi fin da bambino per capire l'età degli alberi, dal numero degli strati circolari iscritti nella sezione del tronco. Il suo ultimo quadro, voglio dire, il suo pezzo di scultura ancora caldo di fusione ricapitolano per assimilazione i precedenti ed insieme le intenzioni. Ognuna delle opere è memoria e programma. A questa sintesi continua concorre in particolare la tensione fra l'intuizione e la riflessione, fra il sentimento e l'autocontrollo critico che commisura emozioni e coscienza e realizza quindi il massimo vitale di novità di persistenza. La medesima interazione fra sensibilità e cultura ha determinato l'altro equilibrio, peculiare alla sua personalità artistica, di identità di sviluppo, senza fratture e senza svolte improvvise ma anche senza immobilità stereotipe. Ha sentito e sente tutte le voci del suo tempo, avverte le correnti palesi e sotterranee che scorrono, si incrociano, si scontrano e si confrontano nel gran mare dell'arte contemporanea; da nessuna di esse si estranea intellettualmente ma nessuna fa oscillare e piegare lo svolgimento dall'interno dell'esperienza sua propria. Chi può dire se e quanto abbiano influito su questa coerenza con sé stesso, attenta e disponibile verso la realtà in movimento, da una parte le coordinate geografiche native e di adozione della sua biografia, in un settore così caratterizzato dell'arco alpino, fra Trento e Sondrio e dall'altra la lunga pratica amministrativa e politica, che lo ha coinvolto nel flusso dei cambiamenti e delle contraddizioni storiche attuali. Le costanti artistiche di Livio Benetti sono confermate sostanzialmente dalla pluralità dei "linguaggi" con i quali egli si esprime, quello della pittura cioè e quello della scultura. L'effetto di quella che si può chiamare rifrazione, dovuta ai mezzi diversi in cui l'ispirazione si riflette, non toglie nulla all'unità e alla continuità dell'itinerario e dei risultati complessivi. La pittura di Benetti è coniugazione della luce. I colori ne sono i modi e le cose i tempi, le occasioni. Senza i colori e senza le superfici la luce sarebbe l'indefinito ma un mondo privo di luce sarebbe l'invisibile. Non so se egli abbia mai detto o scritto qualcosa del genere ma i suoi oli ed i suoi acquerelli lo sostengono da sempre. Dagli anni quaranta, in cui il suo paesaggio respirava nella luminosità intensa di un segno fine e tranquillo, apparentemente oggettivo, all'attuale regime luministico più contrastato in sé e intessuto di impronte cromatiche più incisive, il suo reale primario è rimasto la luce. Un universo di luce in cui tutte le cose si trasformano in luce. Nella sua "logica degli occhi" la natura, montagne e cielo, nuvole e sassi, alberi e fiumi, è lo specchio sterminato al rivelarsi della luce. La lezione dell'Impressionismo e forse dei macchiaioli gli ha dato la libertà iniziale di seguire la sua vocazione; il postimpressionismo gli ha forse suggerito una certa sicurezza esecutiva ma il pittore è andato oltre nel risolvere il rapporto fra percezione visiva ed espressione. 0 meglio, non sembra abbia mai avuto bisogno di indugiare sul problema, perché la luce non ha bisogno di compromessi con le cose che avvolge e trasfigura. Una montagna è un volume di vapori azzurrini e violacei o candida apparizione tenera e lontana, i vecchi casolari sono modulazioni di tinte e di tonalità, il paesaggio invernale è il regno del biancore freddo ed immoto, l'autunno esiste per le sue elegie cromatiche, i girasoli hanno solo la consistenza dell' accurata, lucidissima fantasmagoria di gialli e di marroni, i vasi di fiori sono istantanee smaterializzate dei colori nella loro essenza. La luce di Benetti è ordinata come nel logos hegeliano, nel senso che tutto vi si concilia alla fine, come nell'esperienza quotidiana. Nulla di informale o di deformato, dunque, di astrattistico o di eccessivo, in quanto effetto globale, così che viene da pensare inconsapevolmente ad un "ordine della luce" a portata di mano. La natura e le cose degli uomini non sono manipolate nella forma con cui ci si presentano ogni giorno; solo la materia è diversa, in questa pura fenomenologia della luce. Di quest'ordine si ha la conferma nel ritratto che è nitido, delineato amorosamente, ben costruito, percepito si direbbe dentro un blocco luminoso unidimensionale. Alla base, del resto, di questo ordine che è anche chiarezza intellettuale, cioè cultura, vi è una sintassi grafica scaltrìta. Lo dimostrano i disegni, così significativi nella produzione dell'artista. Il suo disegno arioso, in qualche modo pure esso ritagliato nella luminosità, dalle fibre numerose e sottili che si stendono lungo linee pulite a tracciare contorni e particolari, come tenui allusioni. L'affresco impone al pittore, per la stessa funzione assegnatagli dal committente, una mediazione complessa di spazio, di ambiente e di tema, oltre che di materia. Scartata la soluzione illustrativistica, Benetti adotta quella più congeniale del racconto popolare-simbolistico, lievitato da una tal quale drammaticità gotica, attraverso una condensazione massima di figure nello spazio, con sviluppo verticale della struttura e del movimento ed un sapiente rapporto di tinte e di gradazioni tonali, giocate spesso su effetti luminosi di grande suggestione. Ciò che la luce è nella pittura, è se non andiamo errati, il movimento nella scultura. Il movimento, si vuole intendere, non gestuale ma, se ci si fa capire, nelle intenzioni e nelle modalità originarie secondo le quali Benetti è scultore. Il riferimento più difficile, se non addirittura paradossale, potrebbe essere quello dei busti e dei medaglioni, che colgono di norma ciò che di statico vi è in un volto o in un torso. Nell'altorilievo di Alcide De Gasperi a Trento (presso la Sede dell'Adige), per esempio, gli occhi guardano, le labbra sono serrate volutamente, la fronte appena increspata alla tempia, è vigile, la testa nel suo insieme è provvisoriamente ritta, come se la modellatura scarna e precisa, fosse stata guidata dalla percezione immediata del movimento. Così dicasi del mezzobusto di Ezio Vanoni a Sondrio, concentrato ad ascoltare, in un moto di attenzione reso da un finissimo cenno del capo, assecondato dalla posizione "interlocutoria "di una mano. Non meno "reale" il movimento di taluni nudi, nei quali vibra la sofferenza della fissità, sul punto di sciogliersi ogni attimo, talmente lo sforzo è diffuso e trasparente nella modulazione dei piani. Là dove la scultura deve dare una rappresentazione di situazione dinamica (come nel monumento ai caduti di Sondalo), l'opera di Benetti si fa romantica o forse, più esattamente, si anima della corda simbolistica che è poi, a ben guardare, il desiderio di 'far parlare" la materia. Se nei busti, nei medaglioni, nei nudi lo scultore sembra prolungare la stagione italiana ed europea del primo dopoguerra (viene in mente uno dei suoi maestri, Andreotti ma anche la grazia classica di Déspian e la finezza plastica di Manzù), ci si trova poi davanti a gruppi scultorei che incorporano il movimento in modellature dal lessico profondamente diverso. Talvolta la composizione sembra uscita da uno scavo archeologico, raffinata nella sua rudimentalità anatomica, dal dinamismo pieno di sentimento (fonte battesimale dell'Aprica e famiglia dell'Ospedale di Tirano). La delicata finitura dei volti e delle braccia fa riscontro allo schema appiattito dei tronchi; altre volte finalmente ombre spettrali in fuga costituite da cartilagini bronzee appena abbozzate, alte su una stele, (Monumento alla Resistenza di Sondrio) evocano col semplice simbolismo e col movimento la tragedia e l'esorcismo della violenza. Che cosa significano, se non l'approdo all'essenziale della propria vocazione, queste sculture incavate, volumi presenti e definiti solo col movimento? |
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