Appunti autobiografici
Un' autobiografia che trascura i piccoli episodi e annovera solamente i più grandi, non è affatto un ritratto fedele della vita di un uomo; la sua vita consiste dei suoi sentimenti e dei suoi interessi, e qua e là c'è un fatto, che sembra piccolo o grande, al quale si agganciano quei sentimenti.
M. Twain
di Livio Benetti
Sondrio, agosto 1973
Non è ben chiaro chi dia oggi, nella società contemporanea, la qualifica di artista, nè che significato preciso acquisti il termine nelle sfumature della lingua parlata. E' anche vero che neppure in passato ebbero particolare valore titoli e riconoscimenti accademici, successo di consensi, lanci pubblicitari; ma oggi soprattutto è prudente essere scettici al clamore di certa orchestrazione diretta ad affermare una valutazione duratura e definitiva.
I valori effettivi di un'opera e di una personalità sono soggetti al fluttuare degli interessi, al mutare delle mode e del gusto, alla risonanza che solo poche persone particolarmente sensibili sanno scoprire dentro il proprio animo a contatto con le opere e, con senso di autentica umanità, sanno rivelare agli altri.
Quello che andrebbe cercato sembra essere l'autenticità della vocazione, la serietà dell'impegno, i valori rivelati con coscienza, al di là della scala di grandezza degli stessi, con coerenza costante, nelle opere e nella vita.
Sembra a me che a tale ispirazione si sia adeguato il mio operare; e che, la grande passione per l'arte, che ho attinto dagli insegnamenti di mio padre, abbia regolato e guidato la mia esistenza.
Forse tutto questo non è molto attuale nella società dei consumi, ma è pegno di una testimonianza sincera.
Fin dalle classi elementari, formato da quell'esemplare maestro che fu Giuseppe Voltolini, emerse una mia chiara inclinazione al disegno; ed egli mi incoraggiò ed aiutò con tatto e sensibilità.
La consuetudine a discussioni sull'arte, si alternava nella mia famiglia con esercitazioni di cesello e sbalzo nella bottega di mio padre, sempre attento a suscitare in me nuovi interessi culturali, ma soprattutto a far calare presto nella pratica realizzazione quel poco che lentamente maturava.
Nelle lunghe sere invernali, mio padre ci intratteneva spesso col suo raccontare figurato fantasioso, personale, divagando sulle grandi opere della letteratura, dalla Divina Commedia ai Miserabili, dai Promessi Sposi al Paradiso perduto di Milton e metteva nel narrare una così grande passione, che faceva amare e le opere e gli autori.
Così in grossi volumi aveva raccolto e ordinato ritagli di riviste, fotografie, riproduzioni di opere d'arte, con tale metodo ed acume, che mi offriva già una chiara panoramica della storia dell'arte e degli stili.
Molti interessi per la botanica, l'erboristica, i funghi, la mineralogia, l'esplorazione delle grotte, ci portavan spesso, la domenica, in montagna a documentarci con gruppi di amici della S.O.S.A.T. (Sezione operaia società alpinisti tridentini) in una evasione settimanale sana, ma anche formativa.
Sacco in spalla, abbiamo scarpinato per tutte le montagne del nostro Trentino; in quel vagabondare costante era il ricordo ammirato di mio padre per Cesare Battisti, citato ovunque con la stima che si porta per un apostolo.
La vita allora non era facile. Ogni componente della nostra famiglia partecipava intensamente alle vicende del lavoro paterno, che segnavano alti e bassi, a volte intensamente drammatici, della lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Sono nato a Trento nel gennaio 1915, mentre mio padre era soldato in Russia.
Le prime impressioni rimaste fisse nella mia memoria, sono alcune immagini del cosiddetto " rebalton ": la ritirata dell'esercito austro-ungarico, tramutatasi in disfatta, che si svolgeva proprio sotto le finestre di casa.
Abitavamo allora in Via Venezia; e l'allora Piazza d'Armi (che avevamo sotto i nostri occhi) era letteralmente coperta dai resti sconvolti, sfatti e miseri dell'armata in sfacelo.
Solo nel settembre 1943 ho assistito sgomento a qualche cosa di simile: al dissolversi pauroso dell'esercito italiano.
Fu una esperienza vissuta, tristissima.
Con le vicende storiche cui aveva partecipato, mio padre sapeva intessere racconti pittoreschi che formavano oggetto di lunghe chiacchierate, dalle quali traeva argomento per commenti e valutazioni politiche e sociali che, a distanza di anni, riconosco ebbero una grande influenza sulla mia formazione.

Finite le " elementari ", il dibattito familiare sul proseguimento dei miei studi fu piuttosto animato e si concluse, per necessità di cose e con mio grande disappunto, con la mia iscrizione alle " Scuole industriali " di Trento.
Quella scuola era seria, ma aveva un preminente carattere pratico, poco culturale.
Ricordo tra l'altro le lunghe divagazioni del prof. Lorenzi sulla toponomastica trentina, punteggiate da animate polemiche e sfuriate sulla denominazione del Monte Calisio, che si sarebbe dovuto chiamare Argentario.
La frequenza era di otto ore al giorno; nei pomeriggi si svolgevano le attività pratiche: falegnameria, aggiustaggio, plastica.
Fu proprio a "plastica" che ebbe luogo l'incontro decisivo a determinare la mia scelta; e che mi avviò lentamente sulla strada della scultura.
Insegnava plastica, in un grande salone d'angolo delle officine che guardava verso l'Adige e il Doss Trento, lo scultore Stefano Zuech; personalità eminente d'uomo e d'artista, formatosi all' Accademia di Belle Arti di Vienna, nativo di Brez in Val di Non, e noto allora per aver modellato la " Campana dei Caduti " di Rovereto.
Ricordo che fu amicissimo del pittore Umberto Moggioli, del quale possedeva alcune opere notevoli.
La sua benevolenza creò gradualmente una specie di sodalizio, che mi legò d'affetto e mi spinse sulla via dell'arte, all'acquisizione del mestiere, attraverso un sistematico, intenso lavoro di modellazione, di lavorazione del gesso, di formatura, sempre guidato con amorevolezza e grande pazienza, dalla sua preparazione e dalla sua notevole capacità didattica.
Eravamo in alcuni a bazzicare a "plastica"; con spirito di emulazione si operava con entusiasmo.
Ricordo Eraldo Fozzer, Ennio Tasselli, Tarcisio Leoni, Remo Wolf.
Passarono così quei cinque anni, e per giustificare la mia presenza costante a "plastica", non prevista dai regolamenti, scelsi la specializzazione in "ferro battuto ", che mi portò fra l'altro nelle officine a forgiare, sbalzare e realizzare alcune cose che ricordo ancora con piacere.
Insegnava " disegno ", con straordinaria disciplina e metodo, il pittore Camillo Bernardi, che rammento con viva simpatia ed al quale devo il rigore e la precisione del disegno, nonchè i primi approcci nello studio del colore.
Ci fece fare certe composizioni decorative che ora mi richiamano Klee.
Fu proprio alla conclusione di quegli studi, agli esami di licenza, che il mio " capolavoro " (era un piatto in ferro sbalzato, che rappresentava una volpe), fu giudicato positivamente e con parole lusinghiere (me lo disse poi mio padre) da Cesare Fedrizzi, illustre artigiano del ferro.
Conseguii con ciò il patentino di operaio qualificato: fabbro.
In quegli anni, siamo nel luglio del 1931, mio padre, che si era affermato nell'arte dello sbalzo con notevoli opere d'artigianato, ebbe vari incontri col prof. Vincenzo Buronzo (intelligente e onesta guida dell'artigianato italiano d'allora), il quale, legatosi con sentimenti di stima e d'amicizia all'arte e alla personalità del "mio vecchio" s'interessò con successo per farmi avere una borsa di studio che assicurasse il proseguimento della scuola verso una specializzazione nel campo artistico.
Ricordo che la cifra era di trecento lire al mese, per dieci mesi l'anno.
Scelsi il Liceo artistico di Firenze.
Ma i soldi erano pochi, e pressanti i bisogni della famiglia.
Iniziò cosi un carosello di studi particolarmente intensi, per guadagnare anni e ridurre al minimo il corso di studi che mi permise, con esami d'idoneità, di arrivare in due anni alla "maturità artistica".
Certo il cambiamento nel livello degli studi fu profondo. L'incontro con Firenze fu determinante. Mi si aprì tutto un mondo nuovo, che fui portato ad assimilare con ansia e passione; quasi con fanatismo.
Il primo anno rimasi ininterrottamente a Firenze dall'ottobre al luglio.
Visitai la città in ogni angolo e imparai molto. Anche la scuola mi offrì insegnanti egregi, che mi avviarono all'apprendimento anche della " pittura ". Rammento Crepet, noto acquarellista e Spinelli, artista entusiasta che ci faceva lavorare a tempera, cominciando con la mestica dei colori, uno per uno, incoraggiandoci con vivacità ad ogni esperienza. C'era Chini, del quale seguii un corso d'affresco.
La " scultura " era però sempre nel mio cuore. Modellare era per me una gioia. Certo dal metodo e dai caratteri freddi e sistematici dello Zuech (che ci aveva portati verso l'ammirazione di Wildt), alla scuola di Pozzi e Rivalta a Firenze, c'era una bella differenza! Mi trovai immerso in una specie di neorealismo spinto, variegato qua e là dal neoclassicismo del Novecento. Avevo molta ammirazione per Andreotti, che insegnava a quel tempo all'Istituto d'arte di Porta Romana e per la scultura etrusca, che conobbi al Museo Archeologico. Trentacoste era ancora presidente, ma presto gli successe Carena.
L'insegnamento più grande lo ebbi però dalla scultura del Rinascimento fiorentino e da quella gotica del 1300. Andavo matto per Andrea Pisano, per Donatello e per Michelangelo.
Continuando una tradizione sistematica di frequenza alla Biblioteca Comunale di Trento, dove fui aiutato in tutti i modi, e dove ebbi la possibilità di studiarmi a fondo la Storia dell'arte, anche a Firenze frequentavo la Laurenziana, a pochi passi da Piazza San Marco dove, allo sbocco di via Ricasoli, sono situati l'Accademia e il Liceo.

Abitavo allora alle "Due Strade " in via Senese, su nei pressi di Poggio Imperiale, che si vedeva dalla finestra di cucina, in mezzo agli ulivi, come inquadrato in una pittura di Soffici. Mi svegliavano la mattina i rumori dei carretti che portavano verdura e frutta al mercato e litanie ininterrotte di bestemmie colorite. Da lassù mi sono fatta tanta di quella strada a piedi, che le scarpe erano sempre da risuolare. Mi affezionai molto a Firenze, che ancora oggi rivedo con commozione; mi pare di ritornare a casa.
Frequentai il secondo anno del Liceo nel 1931-32 e il quarto nel 1932-33. Quest'ultimo anno abitavo alle Cure, sotto le colline di Fiesole. A luglio conseguii la maturità artistica e feci l'esame d'ammissione all'Accademia per scultura.
Furono anni densi, tumultuosi d'esperienze e di conoscenze. Sentii più volte Papini a Palazzo Pucci e Bargellini e fui molto vicino a La Pira.
In autunno, mi sembrava di volare, cominciai a frequentare scultura. Vi insegnavano Graziosi e Griselli. Si era iscritto anche Annigoni, che già aveva finito pittura. Ero ammirato del suo modo di disegnare. Ma avevo visto anche molte mostre, quella di Viani, di Conti, di Martini. Verso dicembre iniziarono i guai. La borsa di studio, che speravo continuasse, cessò, perchè era stata concessa dall'"Artigianato".
Tirai avanti fino a Natale e poi rientrai in famiglia. Nel frattempo avevo provveduto ad acquisire, con concorso, il Diploma di abilitazione all'insegnamento del disegno. Feci gli esami naturalmente per quell'anno, ma le difficoltà aumentarono. Mi trovai una " supplenza " a Trento. L'anno successivo continuando l'insegnamento, m'iscrissi al secondo anno a Venezia, frequentandolo tre giorni la settimana. Mi aiutarono molto gli amici dell' A.U.C.T. (Associazione universitaria cattolica trentina). Fu nell'ambiente della "Juventus " (Ass. studenti medi cattolici) e dell'A.U.C.T. che trovai gli amici più cari e l'appoggio più valido.
Erano anni di trambusto politico e militare. Esposi qualcosa alle Sindacali trentine. Ricordo Pancheri che fu molto gentile con me e mi fece vendere il mio primo disegno. Gli mostrai anche il dipinto che avevo realizzato sulla parete della sede alla "Juventus " e mi incoraggiò. In quella "tempera " a soggetto religioso feci alcuni ritratti, compreso naturalmente il mio: Destefani, Menapace, Lubich, Piccoli.
A Venezia scoprii un capitolo tutto diverso dell'arte. Cominciai a capire la pittura nella sua essenza coloristica, e ad apprezzare lo slancio fantastico, nuovo per me che mi ero formato sul rigore formale e intellettuale di Firenze. Conobbi degli amici che mi avviarono alla conoscenza della cultura e dell'arte francese contemporanea. Ricordo una poesia di Apollinaire sulla pittura d'avanguardia, che mi rimase profondamente impressa.
Dedicai molto tempo alla preparazione agli esami di concorso per la cattedra di disegno. Le necessità finanziarie erano impellenti. Nel 1937 vinsi due concorsi: Sondrio, Istituto Magistrale; Feltre, Istituto tecnico. Scelsi Sondrio; e in ottobre raggiunsi la nuova sede. Lunghissimo viaggio da Milano, sei interminabili ore, con divagazioni manzoniane lungo il Lago di Como. Mi sembrò di arrivare in capo al mondo. Ma quando cominciarono ad apparire le superbe montagne della Valtellina, già con la prima neve, e laggiù in fondo il profilo dell'Adamello, mi sembrò di ritrovare un po' l'aria di casa. Poi c'era passato anche il nostro Segantini.
Avevo ventidue anni, mi sembrava tutto possibile. Mi si offrì l'occasione del concorso per il Pensionato Nazionale di Scultura. Si trattava di quattro anni pagati a Roma. Mi ci buttai a capofitto. Una prima selezione fu fatta sulla base di una prova di disegno di figura. La seconda, e doveva essere la definitiva, sulla base di una prova ex tempore di otto ore per un bozzetto a tema. Nel caso nostro " La natività ". Successivo sviluppo in venti giorni di un altorilievo di due metri, per uno e sessanta. Svolsi la prova a Firenze in un'atmosfera di euforia; e il lavoro mi sembrò buono. Poi passarono dei mesi senza saperne niente.
In dicembre la chiamata alle armi, la scuola allievi ufficiali di Bassano del Grappa. L'orgoglio delle truppe alpine.
Fu casualmente attraverso un documentario cinematografico che venni a conoscere di essere stato prescelto nella terna, che doveva eccezionalmente sviluppare una terza prova a Roma. Durante il campo invernale sull'Altipiano di Asiago, a Cesuna, una sera dopo una lunga marcia sugli sci, mi pervenne la licenza per la prova romana. Raggiunsi Roma in divisa, un po' spaesato. fu un'altra prova dura, di venti giorni e purtroppo sfortunata.
Poi servizio militare a non finire: due anni e mezzo, prima in Pusteria; poi a Trento, per fortuna al Battaglione "Trento". Nel 1940, quando si trattava di andare in guerra, dopo sei mesi di istruzione accelerata ai richiamati dell'"uno" e del "dodici", su alle caserme di Monte Bondone, tutti a casa in licenza illimitata. In quel periodo, a Trento, in casa di amici carissimi, conobbi colei che divenne la mia compagna fedele per tanti anni di lavoro intenso e oscuro in quel di Sondrio.
Mi sposai nel luglio del 1940 e in ottobre raggiunsi definitivamente Sondrio. Ci sistemammo in un appartamento che abitiamo ancora oggi; una casa romantica un po' in campagna, nei pressi del Castello Masegra; in mezzo al verde e alle montagne, mi raccolsi con la famiglia, arroccato e un po' isolato, in laboriosa meditazione.
La guerra, un nuovo richiamo, i figli, la Resistenza, la scuola e vari interessi politici non mi distrassero dal lavoro artistico, impegnativo e sofferto, perchè svolto in un pauroso isolamento.
Mi sembrò allora, che la poesia del silenzio e il raccoglimento al contatto con la gente semplice, la famiglia, la natura, avrebbero creato le condizioni ideali per una buona stagionatura. E fu infatti così. Ma attraverso una strada lunga e irta di difficoltà, che si concretavano proprio in quell'isolamento. Un tormento continuo di esperienze, di momenti esaltanti, di avvilimenti. Passarono alcuni anni difficili prima ch'io potessi nuovamente dedicarmi alla scultura come era nel mio animo. Mi rimisi a dipingere. La pittura offriva una possibilità di evasione dalla realtà quotidiana, più facile come mezzi, costi e realizzazione, della scultura, la quale vuole lungo impegno e committenti disposti a spendere. Attraverso la pittura riuscii a ricreare interesse e attenzione anche alla scultura. E fu un'esperienza che mi completo dentro.
Rifeci lentamente e coscientemente, tutta l'esperienza impressionista, a contatto col motivo, all'aria aperta.
Mi studiai gli impressionisti, i postimpressionisti, i " fauves " e i " nabis ". Prima l'acquerello, poi l'olio; alla ricerca, attraverso l'aderenza alla realtà, di un catalizzatore che mi aprisse l'animo in un discorso sempre più libero e personale, ad una riscoperta dei valori profondi, che si dibattevano costretti dai limiti imposti dalle condizioni ambientali e dalle circostanze.
C'erano due anime che si scontravano dentro ed era difficile conciliarne la dialettica: l'esaltazione che al contatto con il " motivo " dà il senso della liberazione nell'interpretazione spontanea, e in un certo qual modo incosciente, automatica della sensibilità, e l'amore per la forma organizzata e pensata, costruita secondo la luce della mente.
In sostanza l'eterno conflitto, tra la forma plastica e il colore come sintesi di tutto. Per un altro verso l'apollineo e il dionisiaco di Nietzsche. Tradotto in scultura, tutto questo creava dei problemi di scelta tra una plastica di forme inventate e definite, vedi Brancusi; e una impressionistica, fatta di luce e colore in suggerimenti evanescenti, vedi Medardo Rosso.
Tutto il mio sforzo si pose nell'intento di capire studiando; e risolvere per comprendere meglio, facendo.
Avvicinare questi due poli diversi, queste due esperienze per strade parallele in una sintesi che si traducesse in personalità. Modellare come gli antichi ed essere aperto a tutte le esperienze moderne.
Fu un lavoro di introspezione e di conoscenza che mi logorò molto ma mi maturò anche, dando - spero - dei buoni risultati. C'era anche il problema di non fare l'arte per l'arte, ma di comunicare alla gente, non subendone il gusto corrente a volte deteriore; cercando di convincere, convertire, trascinare verso un gusto e una sensibilità attuale.
Sembrò prima ch'io fossi troppo moderno e perciò discusso; sembra ora ch'io non lo sia abbastanza. Penso proprio che l'essere sincero con se stesso e con gli altri sia una remora al successo; ma per chi in definitiva il successo non cerca come fine a se stesso, quello che importa è avere una coscienza limpida della propria serietà.
Si, certo, per definizione l'artista ha bisogno di un pubblico e in questo campo le soddisfazioni arrivano talvolta dalle direzioni più impensate. Ma quello che conta è realizzare se stessi nel proprio lavoro.
Segnare nella materia quell'impronta che rispecchia la tua vita, la somma dei tuoi tormenti, sublimata in qualche cosa che rappresenta la tua anima.
E in questo sono un po' espressionista. Ma è il retaggio di noi trentini, popolo delle Alpi, quello di essere tramite tra due culture diverse; ed essere portati alla ricerca di una sintesi.
Passano gli anni e qualche volta in un momento di pessimismo e di scoramento ripenso, come in un ritornello, alle parole del " Bollettino della Vittoria " (che, se non erro, sono di Ojetti); e che il buon maestro Voltolini ci aveva fatto imparare a memoria: "... i resti di quello che fu uno dei piu grandi eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza i monti che avevano disceso con orgogliosa sicurezza ".Così come ad una malinconica sintesi espressiva d'una situazione, di uno stato d'animo.
Invece poi, si fa una statua, si dà vita ad un'idea, che proprio vuole significare questa impotenza dell'uomo di fronte alle forze della prepotenza, agli idoli dei tempi moderni: "la sconfitta" dell'uomo nei suoi valori più intimi e profondi. E quando si è finita quest'immagine, anche con una sfumatura d'indagine autobiografica, la luce che sprigiona dalla statua, la capacità di espressione che ne emana, conforta nell'idea che non tutto è inutile; e che forse dalla coscienza della propria insufficienza vien fuori qualcosa di buono.
Quest'estate la natura era stupenda, la montagna coi suoi colori splendenti, suggeriva sempre nuovi colori, sempre più vividi e luminosi, si dipingeva lassù come in una canzone, e il cuore pulsava rapido come in una nuova giovinezza. Si sentiva nell'aria, l'armonia del creato, che confortava la creatura. Possa il Signore darmi ancora forza e coraggio, per dire queste cose con sentimento e parteciparle umilmente agli altri.



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