Un artista plasmato dall'ambiente Ricordo di Livio Benetti a 5 anni dalla scomparsa. di Franco Monteforte |
Cinque anni fa, il 10 gennaio l987, si spegneva il pittore e scultore Livio Benetti, una delle figure eminenti dell'arte
valtellinese, ma anche attivo uomo politico. Doveroso, quindi, un ricordo della sua personalità e della sua arte. "Non c'è dubbio che le influenze dell'ambiente nel quale si vive, i rapporti, le conoscenze artistiche, giocano un ruolo importante nel plasmare quei caratteri che pur innati in parte, vengono a delineare la fisionomia di un artista che poco o tanto emerge dalla corrente della cultura contemporanea, nella scia di una tradizione che scorre colla vita che lo circonda, forgiandone la personalità". Queste parole di Livio Benetti, scritte nel 1981, sintetizzano efficacemente gli elementi essenziali dell'opera e del programma artistico dello scultore e pittore trentino che elesse la Valtellina a luogo della propria vita e a soggetto principale della propria arte. In questa contò certo la sua formazione artistica maturata nell'ambiente natale del Trentino e poi a Firenze e a Venezia, ma contò in modo decisivo il legame con l'ambiente valtellinese in cui visse e, soprattutto, la convinzione che "la tradizione debba scorrere insieme alla vita e che l'impulso verso il mutamento debba impregnarsi, per essere legittimo, del sentimento di permanenza che proviene dalla tradizione". Con questo bagaglio di idee egli nel 1943 cominciò a lavorare in Valtellina come professore di disegno all'Istituto Magistrale di Sondrio dove alcuni anni dopo avrebbe aperto un proprio atelier divenuto presto punto di riferimento per i giovani artisti locali e momento importante di rinnovamento della cultura delle arti visive nella nostra provincia. La vita artistica in Valtellina era allora desolante. Lo stesso Benetti rievocando quegli anni scrisse: "Un ambiente artistico locale non esisteva, era cone il deserto; ricordo che De Gasperi mi scherzava definendomi il più grande artista della Valtellina. Per forza, non c'era nessun altro! Solo un paio di volte l'anno saliva da Bergamo Paolo Punzo che imperversava sul mercato con la sua pittura di montagna. Mi consolavo conversando d'arte con il caro G. Battista Gianoli nella sua casa di Poggi o nella Biblioteca di Sondrio". Di li a pochi anni sarebbero emersi artisti importanti per l'ambiente valtellinese come il siracusano Giuseppe Bianca, allievo di Semeghini e di Marino Marini a Milano, il fiorentino Paoli Giunio Guerrini, Angelo Vaninetti, Geremia Fumagalli, mentre alcuni artisti valtellinesi cominciavano ad affermarsi al di fuori della Valtellina, la giovane scultrice Lidya Silvestri, il pittore Luigi Bracchi, lo scultore Mario Negri. Con questi ultimi due Benetti avrebbe intrecciato negli anni seguenti rapporti di amicizia. Quando egli giunse in Valtellina alla fine della seconda guerra mondiale era un artista maturo. Dall'ambiente trentino, in cui si era formato, aveva tratto, per sua stessa ammissione, "il culto della tradizione e di un certo colore locale di sapore autonomo e di identità alpina", aveva assimilato la lezione di "contenuto e controllato classicismo" del suo maestro, lo scultore Stefano Zucchi, aveva guardato all'opera dei grandi artisti delle montagne, Hodler, Egger Lienz, Franz Marc, Segantini. In Toscana, nel corso di un lungo soggiorno di due anni, aveva avuto modo di studiare l'arte rinascimentale, le sculture di Michelangelo, di Andrea Pisano, di Donatello e del Ghiberti, ma anche quella moderna di Libero Andreotti, di Martini, di Viani, insieme alla pittura di Ardengo Soffici e di Severini. Se a Firenze studia i segreti della linea e della forma classica, a Venezia, dove soggiorna a partire dal 1935, scopre la forza del colore, la qualità pittorica di una "forma non più astratta nella sua purezza classica, ma inserita nell'aria e nel colore", come egli stesso scrisse rievocando quegli anni. La sua scultura si aprì cosi alle suggestioni della forma vibrante di Medardo Rosso e la sua pittura assunse il sentimento caldo del colore "en plein air", che si diffonde senza contorno sulla tela, rinunciando alle modulazioni del chiaro-scuro per costruire da sè stesso come massa cromatica, le forme della realtà. Nasce da queste premesse di cultura artistica un'esplorazione nuova che raggiunge i suoi vertici nei grandi oli, acquarelli, guazzi degli anni Cinquanta e nel paesaggio valtellinese. Alla retorica di una Valtellina delle vette e dei ghiacciai, al tremendum dell'ambiente naturale alpino, retaggio oleografico della cultura romantica ottocentesca, egli sostitui il paesaggio di fondovalle e di mezza costa, i prati, i vigneti, i rustici casolari, le chiese, la montagna cioè umanizzata dal lavoro e dalla pietas contadina. Anche nel ritratto egli introdusse in Valtellina importanti novità. Ho sempre prediletto i suoi ritratti ad olio degli anni Quaranta, in cui egli toglie al volto umano l'espressione entusiastico-trionfale ed ottimistica che l'immagine del ventennio aveva diffuso, per restituirgli quella pensoso-intimistica, nobilmente atteggiata e interiormente venata da una sottile inquietudine. Ma Benetti fu soprattutto scultore e la Valtellina è tutt'ora disseminata dei suoi monumenti in bronzo. Tuttavia la sua opera scultorea resta a tutt'oggi poco studiata. Essa oscilla lungo due tendenze, quella classica dalle forme pure come nella Madonna del monumento Ravanelli (1965) a Trento e quella quasi astratta in cui le forme si avvolgono vorticosamente come nel pannello in bronzo raffigurante S. Martino (1958) e si distendono in una stilizzata essenzialità lineare come nel Calvario (1963) del Monumento Melazzini al cimitero di Sondrio, o nel Monumento alla Resistenza (1968) nell'aiuola di piazza Campello a Sondrio. In tutta questa produzione che comprende anche una vastissima gamma di disegni, illustrazioni di libri, acqueforti, ecc. Benetti appare spesso profondamente travagliato fra la tentazione dell'avanguardia, dello sperimentalismo formale e il legame con la realtà, che non è soltanto quella più "vicina alla sensibilità della percezione", ma anche quella del contesto sociale in cui l'artista vive ed opera. Questa tensione interna alla propria arte fu per primo egli stesso a intravederla e formularla. "E' evidente - scrisse - che l'arte si nutre di queste esperienze avanguardiste e la libertà espressiva è una conquista da perseguire ma bisogna anche conservare una coerenza interiore. L'esperienza montanara mi ha insegnato a non mollare un appiglio fino al momento di averne assicurato un altro. Capisco la sofferenza della ricerca anche nel campo astratto, nel mondo sognante surrealista ma spesso certe manifestazioni esplosive, certe trovate intelligenti sono al limite e aldilà dell'arte, quando non sono altro che mistificazioni. Penso poi che l'artista deve inserirsi nell'ambiente umano nel quale vive, deve sì scoprire, illuminare cose nuove, per renderle evidenti a chi non le sa vedere ma deve anche trascinarsi al seguito un pubblico, che se è vero che spesso è rarefatto, e pur sempre una comunità che risponde, una platea che dialoga, partecipe col palcoscenico. E' questo discorso con la gente che spesso giustifica l'artista. Succede poi che questo pubblico, sgomento e incredulo di fronte a certe nuove esperienze, maturi più in fretta dell'artista stesso e trovi dopo pochi anni superato quello che ieri l'aveva sbalordito ma l'artista è anche un uomo e deve essere sincero con sè stesso e onesto con gli altri". Non si comprende nulla di Benetti se non si fa attenzione a questa sua idea fissa: l'arte non deve mai perdere di vista la sua radice popolare, l'arte non può superare l'orizzonte storico del gusto del pubblico cui si vuole rivolgere senza perdere se stessa, i legami con la tradizione, la sua funzione civile, l'humus sociale e di cultura da cui deve necessariamente germinare. A questa idea Benetti ha sacrificato spesso la naturale tendenza dell'artista ad obbedire al solo impulso artistico, a battere sentieri lontani dal senso comune ed anticipare i tempi e i modi della sensibilita pittorica. Ma c'era in lui questa tendenza? Si, c'era in Benetti e si è espressa nei disegni e nei quadri che conservava gelosamente nel suo studio e in cui nessuno prima della sua morte ha avuto notizie. Questo artista lo possiamo ammirare in alcuni, pochi, grandissimi acquarelli degli anni fra il 1956 e il 1957; quest'artista lo si trova anche in alcuni bozzetti preparatori di opere d'arte sacra. E così l'opera di Benetti poneva il problema del fondamento necessario, e perciò morale, che deve stare alla base dell'esperienza artistica. Dove risiede tale fondamento, nella sconfinata libertà creativa dell'artista o in una sua obbligazione etica verso la comunità in cui vive? Il che, in altre parole, è l'eterno dilemma se l'arte sia "espressione" o "comunicazione". Benetti cercò per tutta la vita un equilibrio fra queste opposte istanze. Non sempre egli lo raggiunse e la qualità della sua opera e perciò discontinua e risente di slanci e di cadute. Ma dove egli raggiunse l'equilibrio fra forma espressiva ed esigenza comunicativa, allora la sua arte toccò vertici di eccellenza che destano ancora la nostra ammirazione. |
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