Appunti a 2 anni dalla morte dell'artista Livio Benetti
"...la libertà espressiva è una conquista da perseguire, ma bisogna anche conservare una coerenza interiore"
di Giulio Spini
Due anni fa, il 10 gennaio, moriva Livio Benetti. Si spense improvvisamente, di mattina, all'inizio della giornata e dell'anno, lasciando qualche lavoro incompiuto, progetti e intenzioni. Fine, prematura la sua, rispetto all'età, ma soprattutto alle energie e allo slancio. Come negli artisti di razza, la laboriosità fu un connotato necessario della sua arte, la fertilità esigenza e condizione qualitativa.

Della sua pittura, ripercorsa nella memoria, nelle riproduzioni e, di recente, in un certo numero di quadri, pare assuma ora rilievo un filo conduttore che, nell'evolversi del suo linguaggio, nel chiarirsi costante di problemi riguardanti, per esempio, la progressiva irruenza della luce e il rapporto fra l'idea costruttiva del paesaggio, di pulita chiarezza "classica", con la ricca materia coloristica, estrosa e morbida, non subì incertezze e indebolimenti. Questo filo conduttore, non facile da catturare in una vetrina di parole, nasce, ci sembra, dal sentimento fiducioso, ammirativo della realtà, da un'attitudine ottimistica verso le cose e verso gli occhi che vi scorrono sopra, lieti e creativi, abitandole. Occhi, viene da pensare, rinascimentali di ispirazione, che concordano con il giudizio estetico del Creatore, riportato dalla Genesi: "Dio vide che tutto quello che aveva fatto era 'davvero molto bello" ("La Bibbia in lingua corrente"), riecheggiato prima del Rinascimento, oltre due secoli prima, nel "Cantico di Frate Sole", appendice o sua Volta, del Cantico dei tre fanciulli", remoto di almeno duemilacinquecento anni.

Non ci fu intenzione in Benetti, di questo rivolo figurativo-lirico, nato da inclinazione originaria, che la formazione culturale e tecnica, insieme all'esperienza e alla ricerca, fusero nella personalità artistica cosi manifesta e lineare. Non certo a caso, egli stesso, nel disporre le riproduzioni che fanno parte del volume "Livio Benetti - un artista trentino in Valtellina" e coprono un arco di quarantacinque anni, dispose oli e acquarelli dei vari periodi, in modo da offrirli, gli uni vicini agli altri, a un lampante raffronto. Basta guardarli per riconoscere che li attraversa tutti una specie di dolce, pacata esaltazione per i monti, i prati, i fondovalle, i volti di adulti e bambini: per "Visido in Val Masino" (1973) e per "Segale di Grumello" (1953), per' "Paesaggio a Bormio" (1963) e per "Sera in Val Masino", per "Strada a Teglio" (1980) e per "Fosso lungo l'Adda" (1949), per "Contadina" (1980), "Ritratto con bambino" (1959) e "Ritratto" (1944) e cosi via fino alle sue ultime pennellate. La penna, la matita e il carboncino, nel segno sciolto e leggero evocano volti e nudi che nessuno "io diviso" sembra inquietare, nessuna disarmonia intorbidire. Perfino i disegni di case, di ambienti, di quartieri spesso antichi e severi, di architetture non di rado barocche respirano in un' ariosità grafica da tradurre anche il peso dei secoli in lievi, serene presenze della memoria.
Investito dalla pittura di Benetti, ce se ne accorge ora, il paesaggio valtellinese e valchiavennasco ha fatto da similitudine, da caso esemplare di una "visione" francescanamente amabile, la pittura di montagna ha lasciato cadere l'ossessione delle asprezze e le rappresentazioni convenzionali (fondata la prima sul passato greve e povero di molti montanari, stanche le seconde), ha trasfigurato i monti in masse policrome, grandiose barriere luminose, li ha esplorati e interpretati come puri eventi della visione pittorica, colti nel contesto dell'arte contemporanea. Bisogna intendersi, pero: Benetti raccolse di buon grado i mezzi del linguaggio post-impressionista, non escludendo arditezze coloristiche suggeritegli dall'espressionismo, ma non fece proprie le concezioni e i dubbi sulla realtà e sulla vita di cui l'uno e l'altro furono nutriti. Ubbidì alla sua sensibilità, che gli impedi rifiuti preventivi, ma seguì le sue scelte di base, che non gli permisero di sconfinare dal sostanziale terreno realistico, di distaccarsi dalla convinzione circa un ordine superiore, fisico e metafisico, naturale e oltre.
Il suo ottimismo ebbe radici antiche, non disconobbe, ma trascese le contraddizioni e il dolore. Fu quello di Giotto, il quale, come scrisse una storica dell'arte, "dipinge il tradimento di Giuda con serenità stellare". Certo, l'acquarello di "Primavera a Spriana" o il grande olio, pure primaverile, di "Case di Triangia", in cui anche le povere vecchie case vuote ridono di luce non meno dei ciliegi in fiore, sono estranee al sentore di precarietà della grande frana, ma l'arte, come tale, ha i propri modi di acuire l'attenzione armandola di affetti non di paure.

Si è citato qualche volta, a proposito di questa pittura, Oscar Kokoschka, ma la sua "convulsa espressione della realtà" (la definizione di Raffaele de Grada), resa dalla veemenza del colore, spesso di pasta grossa, spalmato a spatolate vigorose, che ha mai in comune con la limpida grazia. del paesaggio di Benetti?
Un riscontro del senso positivo, non pessimistico, dell'arte benettiana, non sarebbe difficile ricavarlo dall'esame della scultura, dove le forme, i gesti, il movimento plastico espongono l'immagine di un modo ragionevole e comunicabile, l'amore alla vita, il prevalere dei valori sul dolore e la violenza (si vedano gli spettri di bronzo in fuga suIla stele di granito, nel "Monumento alla Resistenza" a Sondrio).
Fedeltà a se stesso dunque, ma tutt'altro che facile e superficiale. Ha scritto, Benetti, di se stesso "...la mia arte è un continuo andare e venire, uno studio continuo, un ricominciare sempre daccapo e cosi sembra che non si arrivi mai". E ancora "Sempre lo stesso dilemma, abbandonare il vero per l'avventura o perseguire una visione legata alla realtà..".
Un dilemma che la libertà artistica gli caricò di responsabilità: "...la libertà espressiva è una conquista da perseguire ma bisogna anche conservare una coerenza interiore". Programma dal quale non si discostò un millimetro.

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